Blog di laliadivi

Pensieri e Poesie

Che cosa possono le mie parole nell’interpretazione, tra le righe, di ogni cosa se non stringere quell’emozione che riempie e porta luce in tanto buio. Lasciare andare crea muri, aumenta il pudore nell’ascolto di battiti che segnano i passi che conducono a te. È difficile dare un senso logico a quel richiamo che veste lo spazio dell’ammissione.

Stamani facendo leva sulla mia forza interiore ho ritrovato, dopo alcuni giorni di stasi, la spinta per uscire. Sentivo il peso di grovigli di parole sfondare il confine di quel pensiero costante di luce. Tra schegge brillanti che bagnano i fili d’erba sul ciglio della strada e i passi lenti per non sentire il dolore alle ossa, sotto il peso di un cumulo di vita ridotta a brandelli, fino all’unico posto in cui mi sento in pace. A lui offro i miei tormenti che non trovano più riparo in quest’onda che sale e travolge.

Ero di nuovo lì, in quel punto di non ritorno. Avevo vagato senza tregua, attraversato strettoie dell’anima senza trovare una via d’uscita. Avevo tutte le risposte. Eppure ci giravo intorno senza rendermene conto. Bisognava prenderne coscienza.

Mani

Nell’intreccio delle mani, in quel preciso istante ti ho consegnato l’anima.
L’anima vaga, in quel che resta dell’ombra che si muove nel pulviscolo di una finestra accostata.
Le mani stringono vuoti d’aria. Tutto quel che resta.

Strugge la consapevolezza della realtà che divora i sogni, di quelle anime che viaggiano in uno spazio estraneo ai vacui pensieri. La purezza non puoi sentirla se non ti appartiene, non puoi fare tuo uno stato elevato di pensiero, spetta a chi non ha necessità di spiegare.
Il tuo pensiero modula la purezza di un battito.

Tace il paese

[Tutto appare sospeso, ogni cosa riposa dentro silenzi assordanti che si propagano attraverso una fitta rete di emozioni. L’attesa in un nuovo risveglio]

Tace il paese, dietro gli scuri di finestre assonnate.
La luce, fioca, illumina le antiche pietre
in una strada deserta.
Disegna tratti di una figura ondeggiante,
simula suoni lontani di ombre e di vita passate.
A ricordarci orizzonti di cenere.

Immagine dal web

Estemporanea

Una mano appoggiata allo stipite,
gli occhi fissi a contemplare
quello spazio pregno di corpi affamati di vita.
Il sole al suo interno, fori il piombo di giorni vuoti.
La memoria d’immagini vive,
di respiri celati nel vano segreto di un’armatura
attraversata da un pensiero di luce.

In un giorno qualunque

Oggi non è giornata, continuo a ripetermi mentre stiro gli arti snervati dall’insonnia e dal continuo movimento notturno, l’umore è sotto i piedi e cupo come il cielo che sovrasta questo inizio autunno. Fuori piove, l’acqua continua a scivolare sui vetri creando rigagnoli, goccia dopo goccia si posa sul davanzale della finestra. Come quelle lacrime trattenute e infrante a metà tra il cuore e la ragione. Sempre lei, come oggi, quella malinconia senza nome mi pervade avvolgendomi in un’inquietudine che non ha voce, in un sudario di nebbia. Abitudinaria, rigorosa, precisa, caratteristiche indossate come seconda pelle, difficile entrare in quello che è il mio mondo. Marco, manager di una grossa compagnia, lo avevo conosciuto per caso. Era entrato nella mia vita in un giorno, anomalo, di pioggia. Statuario, occhi cobalto come il mare, con una testa pensante. Al ritmo incessante della pioggia ripensavo al nostro incontro-scontro nella metropolitana, a tutti i fogli della cartellina che stringevo tra le mani, oltre all’ombrello e al cellulare che aveva appena finito di squillare, sparsi sul rivestimento antistante ai binari, al mio trovarmi occhi negli occhi con la disattenzione fatta persona. Il suo scusarsi, attribuendo alla fretta quel gesto maldestro, e l’invito, per farsi perdonare a bere un caffè, e il mio rinviare ad altra data per l’impossibilità di poter accettare; uno scambio di numeri e via al lavoro con larghissimo ritardo. Avevo accettato un lavoro part ime in una testata giornalistica di moda per vivere a Milano dopo la laurea, in attesa di un ruolo nella scuola, il sogno di mia madre quello del posto fisso, in tanto mi dividevo tra supplenze e articoli per il giornale. Il mio sogno quello di diventare una giornalista affermata. Marco ed io demmo inizio a una convivenza dopo poco tempo e già dall’inizio cominciarono le nostre incomprensioni, quella testa apparentemente pensante si rivelò vuota, un uomo con una personalità narcisistica. Le carte del mazzo, sparso sul tavolo da gioco, furono chiare: esisto solo io e tu fai quello che ti dico, una partita truccata dove il vincitore è sempre lo stesso, un vero baro verso se stesso e gli altri. Appropriato il paragone per un malato di gioco come lui, uno che aveva sperperato una fortuna sui tavoli dei casinò di mezzo mondo, passando da un letto a un altro di donne pagate per puro divertimento. La sua gelosia, il suo amore malato alimentavano continuamente la mia frustrazione trascinandomi, giorno dopo giorno, nel baratro dell’incoscienza. Non riuscivo più a sentirmi me stessa e cercavo, continuamente, scuse ai suoi mali; la mia colpa: amarlo di un amore cieco. Sopravvivenza era diventato il mio status, il lavoro: l’unica valvola di sfogo. E oggi, testimone ancora una volta la pioggia, stringo tra le mani una raccomandata che mi porterà via da tutto questo, finalmente il ruolo nella scuola del mio piccolo paese d’origine. Nonostante la bella notizia, che attendevo da tanto, non riesco a sentirmi appagata; una sensazione strana attraversa la mia pelle fino a sentire i brividi lungo la schiena. Devo sbrigarmi altrimenti arriverò tardi all’appuntamento, forse l’ultimo della mia breve carriera giornalistica, ho l’intervista con un modello sul set fotografico al padiglione fiera. Sotto la doccia continuo a pensare a quel ragazzo di cui conoscevo l’immagine e il curriculum attraverso il materiale che avevo raccolto per fare l’intervista. Che cosa avrà mai da dirmi uno che vive costantemente sotto i riflettori, che ha fatto dell’immagine la sua ragione di vita, che gira l’Italia per fare ospitate in tutte le discoteche che lo richiedono, votato allo sballo e rivestito dalla superficialità; un giudizio, il mio, dettato da quello che era la realtà di oggi giorno. M’infilo un paio di pantaloni aderenti, una camicia di seta bianca, scarpe alte con tacco a spillo, anche se scomode per affrontare una giornata di pioggia, devo essere comunque elegante per entrare in quel mondo, un filo di trucco e una sistematina ai miei capelli ribelli. Prendo l’auto in garage e mi dirigo verso il quartiere fiera, arrivo con un leggero anticipo sul set, tra luci macchine fotografiche e un andirivieni di truccatori e operatori del settore, i miei occhi s’incrociano con quelli di Lele, una sensazione difficile da spiegare, mi turba fino a creare in me un grande disagio, una sorta di vertigine s’impossessa del mio equilibrio fino a farmi barcollare. Devo sedermi necessariamente e aspettare che finisca il servizio, intanto cercherò di rilassarmi, pensai tra me. Lele con un fisico mozzafiato, con il linguaggio dell’anima tatuato sulla pelle, inchiostro a definire un’appartenenza a una determinata dottrina, tratti di libertà e condanna, sicurezza di uno stato d’essere con spregiudicata e disinvolta apertura. Un mio primo esame, prima di ascoltare la voce. Eccoci seduti di fronte, io con il taccuino per prendere appunti e lui pronto per condividere con me le fasi determinati le scelte fatte. Ci presentiamo: io che cerco di sfuggire a quegli occhi penetranti e neri, come gli abissi in cui devi avere il coraggio di guardare, e lui, insistente, con i suoi fissi nei miei; una situazione di grande imbarazzo da parte mia. Per sdrammatizzare comincio con le mie domande cui seguono risposte sicure ed esaustive. A intervista finita lui mi stringe la mano e chiede di potermi incontrare in un altro luogo, si giustifica dicendo: vorrei leggere prima dell’uscita quello che scriverai. In macchina, diretta verso il giornale, ripenso all’infortunio che aveva stroncato la carriera calcistica di Lele, alla sua grande forza di volontà per superare il tutto e alla sua entrata nel mondo della moda per la sua fisicità e non per scelta. Due mondi diversi, i nostri, in cui le scelte sono state dettate da avvenimenti che hanno segnato la nostra vita; due anime, però, della stessa grandezza e attraversate dalla stessa voglia di riscatto da un mondo fatto di superficialità in cui i rapporti si consumano in un tempo brevissimo e il più delle volte devastanti. Nello stesso istante in cui i nostri occhi s’incrociarono si creò la magia. Trascorsi tutta la notte a scrivere l’articolo, avvolta da una nebulosa luminosa, curando tutto nei minimi particolari e, solo dopo aver finito, all’alba lo chiamai per dirgli che poteva leggerlo. Le mie parole lo resero prigioniero della mia anima, da quel giorno tutto cambiò. Le nostre strade si erano incrociate in un momento in cui altro era stato deciso, non ora, ma ci sarebbe comunque stato un altro luogo in cui viverci. Arrivò il giorno della partenza, lui mi accompagnò alla stazione per prendere il treno che mi avrebbe riportato a casa, a una vita tranquilla, senza la presenza di Marco che avevo lasciato, finalmente riscattata da quell’inferno, finalmente viva, ma con il cuore nelle mani di Lele che avevo amato dal primo momento. Ci abbracciammo per un tempo infinito, in direzioni opposte prendemmo la nostra strada. In quell’andirivieni di persone, perse nei loro pensieri, e vagoni in movimento, consegnai la mia consapevolezza che non è sempre vero quel che appare, che dietro a volti che infondono sicurezza si possono celare creature orribili e volti, apparentemente, effimeri racchiudono una bellezza d’animo e uno splendore che inonda anche il cielo più cupo. Forse un altro treno, in un giorno qualunque, ci avrebbe condotto alla nostra fermata, a quella del cuore.
Laliadivi

Arrugginite speranze

Erano giorni che non usciva di casa, in un silenzio tombale ascoltava la sua anima; tacito suono che emergeva dalla profondità più intima della coscienza. Un silenzio che vestiva una solitudine cercata e vissuta, l’unico spazio in cui riusciva a respirare. A lungo, si era soffermata ad ascoltare vagiti di insipide vite congiunte, aveva visto recitare copioni di assurde commedie, aveva toccato con mano la falsità e l’egoismo di chi non era in grado di comprendere l’altrui essere. Un contenitore di scorie, riempito da chi è abituato a pianificare, a indossare giustificazioni dietro condotte ordinarie di inutili rivalse. La pochezza: una inetta, presuntuosa veste. Giulia, se pur ibernata in quella condizione, non si era mai arresa, aveva solo accostato l’uscio per filtrare il suo piccolo raggio di sole. Siamo così distanti che, pur volendo, non ci incontreremo mai- disse Giulia soffocando le parole in gola.
Ognuno perso in una libertà che è, allo stesso tempo, condanna in quei moti dell’anima che ci accompagnano nella caducità di passi ancorati a suoli sconnessi. La mia, una libertà che fa respirare l’anima, si lascia attraversare fin sotto la pelle dalle emozioni, riverbera nella purezza di un pensiero; la tua, generata dall’azione impulsiva, solleticata dai sensi nell’appagamento irrefrenabile della conseguente conquista.
Laliadivi

Immaginare non è follia ma un modo di vivere una pseudo vita parallela. Quello che non vivo lo scrivo…

Era trascorso un anno e Sara continuava a sentirlo dentro come quel giorno in cui, con insistenza, la chiamò a se; si era opposta con tutte le forze a quel richiamo, a quel desiderio passionale d’impeto, a quella forza difficile da spiegare. Ora lui era lontano, immerso in un mondo di cui Sara non conosceva i meccanismi, plasmato da un sentimento che assomigliava più a una ripicca verso qualcosa che aveva messo a dura prova la sua fame d’amore. Era giusto che lui vivesse la sua vita, che trovasse un equilibrio dopo l’inclinazione di un pensiero del tutto pretenzioso nell’illusione di poterlo rendere realtà. Sara era dotata di un dono che le faceva percepire le cose involontariamente e sapeva per certo che la donna con gli occhi di ghiaccio non gli avrebbe mai potuto dare l’amore che lui desiderava, aveva gli anni giusti per lui ma non il vissuto, troppo calcolatrice e fatalmente narcisista. Era giunto il momento per Sara di uscire completamente dalla sua vita, di lasciarlo andare anche nel pensiero, di slegare quella vela della fantasia che continuava a navigare il suo mare senza trovare il porto, di accarezzarlo nel buio della notte quando il manto delle stelle le offriva la luce giusta per illuminare quel che sentiva. La sua carezza non poteva più accompagnarla lungo il sentiero battuto dall’ombra di alti cipressi, doveva strapparsi dal cuore quei battiti che mai una volta la avevano abbandonata, non poteva più sentire nel cuore colui che lo abitava e non gli camminava accanto. Aveva desiderato tanto guardarlo negli occhi, almeno una volta, per avere conferma di quell’anima che Sara aveva saputo leggere anche da lontano. Lei avrebbe continuato a camminare passi nell’apatia del suo vivere, nella consapevolezza di non poter stringere a se colui che, come folata di vento nella quiete di una calda giornata di fine estate, le aveva stravolto la vita con il suo ardente sentire regalandole quel calore che solo un raggio di sole può dare. Ecco cosa li univa: il mistero dell’Amore come sentimento puro, come espressione di una realtà conducibile a una base che ti deve appartenere, uno strato epidermico che non tutti posseggono. Amare significa saper rinunciare pur di non far soffrire l’altro e Sara lo doveva a lui e a se stessa. Avrebbe continuato a vivere nelle parole che Sara amava tanto.
Laliadivi